Eleonora Duse
IV Sala. Il poeta e l’attrice

IV Sala. Il poeta e l’attrice

L’intera quarta sala, la più grande della mostra, è dedicata alla celebre storia d’amore tra Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio; una prima parte, Venezia e D’Annunzio, è dedicata agli anni Novanta; la seconda, denominata Il fuoco, agli anni immediatamente successivi alla pubblicazione dello scabroso romanzo.
Il primo incontro con il poeta abruzzese avviene al Teatro Valle di Roma nel 1882, quando al termine di una recita de La signora delle camelie, un giovanissimo D’Annunzio le si avvicina, spinto dal desiderio di conoscerla per creare un teatro nuovo.
Olga Signorelli invece posticipa l’incontro nel settembre 1894, durante una tournée di Eleonora a Venezia; a quei giorni risalgono anche gli scatti effettuati da Primoli, in cui l’attrice è ritratta mentre si accinge a scendere da una gondola, avvolta da un lungo scialle scuro . In quei giorni soggiorna nella città lagunare Angelo Conti, direttore delle Regie Gallerie e amico di Eleonora, il quale le presenta Gabriele D’Annunzio e Adolfo de Bosis . Questo è comunque l’anno dell’inizio della relazione tra i due.

Eleonora Duse in gondola nel bacino di San Marco.
Serigrafia realizzata dal conte Giuseppe Napoleone Primoli (1894-1895)


Lo spartiacque nella relazione tra la Divina e il Vate è individuato da Guerrieri nel 1900, l’anno in cui vede la luce Il Fuoco . La prima parola che salta agli occhi leggendo il foglio che schematizza l’organizzazione di questa parte di sala è: «scandalo».
In Italia infatti, fino a questo momento, nessuno scrittore, soprattutto di questa fama, aveva mai dimostrato tanta audacia nel raccontare la propria autobiografia, anche nei suoi risvolti più intimi, fino all’esibizione della relazione con l’attrice altrettanto illustre, non risparmiandole neanche i particolari scabrosi.

Se Boito preferiva la donna all’attrice, D’Annunzio è attratto proprio da quest’ultimo aspetto, forse non tanto per aver idealizzato l’Arte, ma perché in lei vede lo strumento alla sua ambizione. E senz’altro plausibile pensare che a lei piaccia sentirsi idolatrare e in lui intraveda la possibilità di riformare il teatro italiano, iniziando proprio dal progetto mai realizzato di un Teatro sul lago di Bracciano. Guerrieri non sembra condannare qui D’Annunzio per aver trasposto nel romanzo particolari intimi della sua vita con Eleonora, e scrive nel catalogo che lei è «come un animale selvaggio, si abbandona con furia scatenata».

In tutto in libro non mancano descrizioni sensuali susseguite da ingiuriosi commenti sul passare del tempo, come se «i segni degli anni» non riguardassero il “superuomo” Stelio Effrena. Alquanto imbarazzante è anche lo spudorato riferimento al tradimento con Donatella Arvale – alias di Giulietta Gordigiani – bella e giovane amica della Foscarina figlia del pittore – figlia, anche nel romanzo, di uno scultore .
Potrebbero esserci due punti di vista su questa pubblicazione: o sublimazione di una storia d’amore nell’arte o l’aver sfruttato senza rispetto la notorietà dell’attrice per alimentare il proprio mito. Inoltre, da una parte lo spregiudicato poeta è ben conscio che il teatro offre fama e introiti maggiori rispetto a quelli derivati dalla scrittura, dall’altra l’attrice, già mito internazionale, sogna di interpretare il suo più grande capolavoro per poi ritirarsi dalle scene.
D’Annunzio insiste, pagina dopo pagina, sulla paura di invecchiare di Eleonora, sulla sua ossessiva gelosia, sui suoi tormenti interiori. A dir poco sgradevole risulta il ritratto riservatole, sia quando Stelio/D’Annunzio indugia sulla «sua carne non più giovane », sulle sue «membra disfiorite » e di «come profondamente egli la considerasse avvelenata e corrotta, carica di amori, esperta di tutto il piacere, tentatrice errante e implacabile».
Nota è sempre stata la riservatezza di Eleonora Duse, ragione per la quale non ha mai voluto scrivere alcuna autobiografia, mentre D’Annunzio ha scelto di rielaborare il proprio vissuto e di sublimarlo in letteratura. Come nota Maria Pia Pagani, «questo processo implica la delicata fase del distacco del ricordo dalla dimensione strettamente privata e la sua “trasfigurazione” letteraria, grazie alla quale esso diventa un episodio pubblico ed è condiviso con la vasta schiera dei lettori ». Il concetto di “trasfigurazione” è lo stesso utilizzato da Sibilla Aleramo quando la vede recitare «nella sua aureola costante di grandezza e di trasfigurazione».
Nel 1893 Eleonora si trasferisce a Venezia con l’intenzione di ritirarsi dalle scene. Incontra quindi D’Annunzio nel 1894, ma lui più che della donna è innamorato dell’attrice, tant’è che nell’estate del 1895 effettuano il loro sodalizio: D’Annunzio darà vita alla “tragedia moderna”, ovvero ad una nuova drammaturgia che commistioni la tragedia classica e il modello wagneriano, e Eleonora Duse si offre al poeta quale strumento per la realizzazione delle sue opere teatrali: il teatro dannunziano infatti nasce con lei. In questo periodo lei ha trentasette anni, ha alle spalle il fallimentare matrimonio con Checchi ed è legata da sette anni a Boito; D’Annunzio ne ha trentadue ed è un noto amatore: nel 1883 sposa Maria Hardouin dei duchi di Gallese , da cui ha tre figli, e ha una relazione anche con la contessa Maria Gravina Cruyllas, ma nonostante questo i due intraprendono quella che diverrà una relazione tormentata.
L’idea del primo dramma scaturisce al poeta durante un viaggio in Grecia mentre è assorto a scrutare la maschera di Agamennone appena scoperta da Schliemann, insieme alla città di Troia: nasce così La città morta .
La stessa genesi dell’opera è descritta ne Il fuoco come una collaborazione tra lo scrittore e l’attrice per confrontarsi con il genere teatrale. Queste opere infatti sono state scritte in concomitanza, come egli stesso dichiara in una lettera del 1896 .
Come in tutte le opere del Vate, anche qui vi sono tracce autobiografiche: il protagonista, Alessandro, è un poeta e scrittore che si reca con la moglie cieca Anna, l’amico Leonardo e sua sorella Bianca Maria in Grecia con l’intento di trovare i resti dell’antica città di Micene. Tra Alessandro e Bianca Maria nasce una relazione, che però non sfugge alla povera Anna nonostante la cecità. Quando Leonardo scopre tutto annega la sorella, e proprio quando i due amici cercano di disfarsi del cadavere, vengono scoperti da Anna, che miracolosamente ha riacquistato la vista.
Incredibilmente non è Eleonora ad avere la prima assoluta della tragedia, ma La città morta viene presentata nel gennaio del 1898 a Parigi al Théâtre de la Renaissance, con Sarah Bernhardt nel ruolo di Anna. Questo affronto comporta una prima rottura tra Eleonora e D’Annunzio, motivo per il quale si riavvicina a Boito.
Ma anche questa volta il poeta viene perdonato, anche grazie all’atto unico che le concede lo stesso anno a Parigi con la prima di un Sogno di un mattino di primavera. Eleonora però non può rinunciare a portare in scena lei stessa La città morta in Italia, ma nuovi ostacoli le si pongono davanti: dapprima la sua malattia la obbliga a rimanere sulle Alpi, poi la tubercolosi della figlia Enrichetta e infine il diniego di Andò d’interpretare Leonardo nell’atto unico. Inoltre D’Annunzio pretende per la sua rappresentazione i migliori attori in circolazione in Italia. Duse riesce a portare in scena La città morta con Ermete Zacconi solo nel 1901, scusandosi anche con D’Annunzio per il ritardo col quale ha interpretato Anna.

Eleonora Duse nel ruolo di Anna ne "La città morta" di D'Annunzio. Fotografia di Giovanni Battista Sciutto (1901)

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Nel luglio del 1897 Eleonora si trasferisce alla Porziuncola, una villetta sita a Settignano e poco dopo D’Annunzio trasloca alla Capponcina, dove scrive la Gioconda, e durante il loro soggiorno in Grecia termina la Gloria. La Gioconda, tragedia in quattro atti in prosa, viene rappresentata nel 1899 da Duse insieme a Zacconi. Anche in questa tragedia, come ne La città morta, tutto ruota intorno alla figura del Superuomo e della moglie sacrificata che non solo sopporta i tradimenti del marito, ma che addirittura è disposta ad immolarsi pur di salvare le sue creazioni artistiche. Uno scultore, Lucio Settala, si divide tra la moglie Silvia e la sua musa-modella Gioconda; quando quest’ultima crede di essere stata abbandonata distrugge una statua di Lucio, e Silvia, nell’estremo e vano tentativo di salvarla, resta mutilata delle mani.
Anche Gloria, tragedia in cinque atti in prosa, intende glorificare l’essenza del Superuomo, che qui però viene alla fine ucciso dall’amante.
Sia Gloria che Gioconda sono presentate nel 1899 in una tournée iniziata a Palermo e conclusasi a Napoli. La prima opera si rivela un fiasco assoluto e non verrà mai più rappresentata, mentre Gioconda è portata in giro per il mondo.


Allo spettacolo successivo, Francesca da Rimini, presentato nel 1901, Duse e D’Annunzio dedicano molto tempo e si avvalgono dei migliori collaboratori dell’epoca; è molto costoso, ed Eleonora, oltre a recitarlo, lo produce e lo finanzia. In Italia la tragedia medievale riscuote scarso successo di pubblico e critica, mentre è apprezzata a Vienna e a Berlino.

Eleonora Duse nel ruolo di Francesca da Rimini, nell'omonima tragedia dannunziana. Fotografia di Giovanni Battista Sciutto (1901)

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Nel 1903 l’attrice parte per la tournée americana per presentare il repertorio dannunziano, ma neanche qui riscuote successo. La relazione con D’Annunzio è nuovamente in crisi, e anche questa volta non manca di farle un torto, proprio come accadde per la prima mondiale de La città morta, affidata a Sarah Bernhardt: Eleonora avrebbe dovuto recitare quell’anno una sua tragedia in tre atti, La figlia di Jorio, ma si ammala e D’Annunzio non volendo aspettare la sua guarigione, affida la parte di Mila ad Irma Gramatica, scegliendo come altri interpreti Ruggero Ruggeri e Lyda Borelli. La prima del 2 marzo 1904 al Teatro Lirico di Milano è un successo.

Ritratto di Irma Gramatica


Per Eleonora Duse questo deve essere stato un affronto indicibile: Irma Gramatica ̶ entrata nella compagnia di Cesare Rossi ai tempi in cui vi erano anche Giacinta Pezzana, Flavio Andò e la stessa Eleonora, con la quale recitò Fedora di Sardou ̶ è una sua vecchia conoscenza poco gradita in quanto aveva avuto anche una relazione clandestina con Tebaldo Checchi, il marito di Eleonora.
L’incostante D’Annunzio non si smentisce e in questo periodo intreccia una relazione anche con la nobile Alessandra di Rudinì Carlotti, ribattezzata da lui Nike, la quale si trasferisce alla Capponcina nel marzo del 1904 . Nonostante la drammatica serie di queste lettere disperate in cui Eleonora Duse cerca inutilmente di riconquistarlo, i due non torneranno mai più insieme.
Finisce così la travagliata storia d’amore tra il Vate e la Divina.

Tra le fotografie selezionate per questa sala vi sono le fotografie scattate da Primoli a Venezia, di cui si è accennato prima. In questi scatti si nota una posa che ricorre spesso in molte fotografie di Eleonora, quella delle mani sui fianchi, riscontrabile sia nella fotografia scattata da Paul Audouard nel 1884 che la ritrae nel ruolo di Mirandolina, ne La locandiera goldoniana, sia in questa serie di scatti realizzati dieci anni dopo dall’amico Giuseppe Napoleone Primoli, mentre si appresta a scendere da una gondola. A queste immagini seguono le uniche esistenti sulle opere dannunziane e forniscono a Guerrieri una riflessione sull’iconografia giuntaci di queste opere.
Della Gioconda esistono solo un paio di disegni, nulla della Gloria. Più fortunata è stata La città morta del 1901, attraverso le cui immagini è possibile ricostruire parzialmente la tragedia. Sono giunte a noi fotografie di Anna – con indosso un elegante vestito prima bianco e poi nero di Worth – in dialogo con Bianca Maria (anche lei vestita prima di bianco e poi di nero) e con la nutrice.
La serie di scatti quindi ricostruisce la scena in cui Anna scopre il cadavere di Bianca Maria: Anna cieca arriva, si china sul corpo inerme di Bianca Maria e infine si alza con le braccia aperte a cui seguiva l’urlo: “Io vedo!”.
Guerrieri nota come non esistano fotografie che ritraggono l’attrice con i suoi partner maschili: nessuna fotografia con Zacconi né per La città morta né per La donna del mare del 1921, come non ne esistono assieme ad Andò, lo storico Armando de La signora delle camelie. Secondo lui non è dato sapere se questo sia dovuto ad una scelta di Eleonora Duse che non amava farsi ritrarre insieme agli altri attori, o se fossero i fotografi ad essere unicamente interessati alla Divina.

Eleonora Duse nel ruolo di Anna, in La città morta (1901)
Eleonora Duse nel ruolo di Anna, in La città morta con Ines Cristina Zacconi nel ruolo di Bianca Maria (1901)

L’unico spettacolo che è possibile ricostruire quasi nella sua interezza è Francesca da Rimini. Di questo, primo tentativo italiano di una vera e propria regia, sono state conservate le immagini, in bianco e nero, e le scenografie di Fortuny realizzate per tutti e cinque gli atti.
L’influsso di D’Annunzio è riscontrabile anche attraverso le pose immortalate per i servizi fotografici per le tragedie La Città morta e Francesca da Rimini, entrambi realizzati da Giovanni Battista Sciutto nel 1901. I servizi fotografici realizzati da Sciutto adoperano fondali diversi da quelli utilizzati realmente nelle scenografie dannunziane, pertanto queste fotografie sono state scattate presumibilmente in studio e non si possono ancora definire fotografie di scena in senso tout court, ovvero scattate direttamente dal palcoscenico, come è oggi usuale.
Nelle immagini che ci sono giunte de La città morta, Duse appare ispirata nell’interpretazione della cieca Anna, costretta a sorreggersi all’altra attrice Ines Cristina Zacconi o alle architetture scenografiche, realizzate da Rovescalli. L’abito indossato da Eleonora si confonde con quello delle altre attrici, spersonalizzando così la protagonista, come era negli intenti di D’Annunzio.
Il costumista è l’inglese Charles Frederick Worth – passato alla storia per aver abolito la crinolina e per aver accorciato le gonne – creatore anche dei costumi di Rosmersholm e dell’abito bianco de La signora delle Camelie, conservati presso la Fondazione Cini.
Per la Francesca da Rimini, D’Annunzio aveva commissionato a Mariano Fortuny y Madrazo ̶ pittore, costumista, scenografo, fotografo, sarto, creatore delle splendidi vesti plissettate sfoggiate da Sarah Bernhardt e Isadora Duncan ̶ il confezionamento dei costumi, ma poi la collaborazione non si realizza e di questo progetto rimangono solo i bozzetti. Duse opta allora per stoffe con damaschi e broccati, dai motivi orientaleggianti e dai colori autunnali, così come si usavano a Venezia nel Cinquecento, ma che richiamano anche lo stile Liberty dell’epoca. Fortuny realizza per lei un peplo dalle sinuosità greche, il Delphos, ispirato al chitone delle korai arcaiche, ed in particolare al chitone dell’auriga di Delfi, statua rinvenuta in Grecia nel 1896. Quest’abito rappresenta una vera e propria rivoluzione nella moda della Belle époque, per aver abolito il corsetto e qualunque altra forma di busto privilegiando la comodità. Alla semplicità della forma del Delphos, la cui realizzazione richiede pochi tagli e cuciture, si contrappone la preziosa scelta di raffinati tessuti, quali sete, rasi, taffettas e veli. La fluidità di questi tessuti leggeri e fluttuanti amplificava i movimenti drammatici e l’intensità della recitazione di Eleonora Duse, che la porteranno ad indossare quegli abiti non solo sulla scena, ma anche nella vita privata.

Questi sono gli anni in cui l’attrice diviene “divina”; gli abiti indossati diventano più sontuosi e ricercati, rispetto ai modesti vestiti delle fotografie degli esordi.
Prima di affidarsi ai costumisti più blasonati dell’epoca, i suoi vestiti erano eccessivi, come in Cleopatra, dove il risultato finale era abbastanza artificioso e appesantito dai gioielli pesanti e che oggi striderebbero con l’ambientazione egizia. Ma anche in quest’occasione non utilizza né trucco né parrucche, come una fedele ricostruzione storica avrebbe richiesto. Eleonora non si trucca mai e non indossa gioielli o corsetti, spesso appare in pose maschili: poggia i gomiti sulle ginocchia aperte o ha le mani sui fianchi. Quando raggiunge l’apice del successo, si è ormai tolta di dosso fin l’ultima sfumatura dell’«indigenza d’origine», affermando la sua estrema raffinatezza e la sua eleganza vera.

Eleonora Duse in Francesca da Rimini (1901)

In questa sala della mostra sono quindi esposte tutte le fotografie di scena raffiguranti Eleonora Duse nelle vesti dei personaggi dannunziani, a cui seguono il manifesto della Figlia di Jorio, con relativo ritratto di Irma Gramatica e della compagnia, e le immagini dei luoghi veneziani descritti ne Il fuoco. Sull’appunto di quest’ultimo “carousel”, Guerrieri annota di voler ricercare fotografie di Eleonora «invecchiata», come quella «splendida » scattata a New York da Edward Steichen ̶ maestro delle fotografie di moda, i cui scatti erano pubblicati su «Vogue» e «Vanity Fair» ̶ durante la sua tournée americana del 1903.
Ma le fotografie che restituiscono una Eleonora umana e autentica sono quelle scattate, in un momento privato alla Capponcina, con una Pochet Pocket Kodak. In quelle istantanee si coglie il lato più privato dell’attrice e di D’Annunzio.
La colonna sonora scelta da Guerrieri come sottofondo alla IV sala è stata costruita come una sorta di processo in cui i vari personaggi prendono le parti o del Vate o della Divina.

Eleonora Duse a Settignano (1898 circa)

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Così Enzo Siciliano declama brani de Il fuoco, fornendo un punto di vista favorevole a Stelio, quindi a D’Annunzio, Valeria Moriconi difende invece la Foscarina e infine il narratore onnisciente è interpretato da Mario Prosperi. A dare voce a Eleonora interviene Valeria Moriconi con la lettura delle epistole dusiane in merito alla messa in scena della Figlia di Jorio, a cui segue l’ipotetica risposta di D’Annunzio, interpretato da Enzo Siciliano.

Lettera di Eleonora Duse a Gabriele D'Annunzio

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